Le PMI innovative

Le PMI innovative


Le PMI innovative sono state introdotte nel nostro sistema normativo con il DL 3/ 2015, recante “misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”.

 

Questa norma esprime la volontà di incentivazione del concetto di innovazione all’interno delle imprese italiane, ma se ne possono apprezzare gli effetti specialmente in riferimento al valore pratico-strategico; infatti, fino al 2015, gli imprenditori che volessero aprire un’azienda non vedevano nelle forme giuridiche e nelle normative fiscali offerte dalla legge italiana uno strumento di favore o di stimolo a fare impresa.

Considerando poi il divario tecnologico rispetto agli altri competitors europei, una manovra semplificativa sembrava inevitabile.

 

Un’impresa, per ottenere questo stato giuridico di favore deve rispettare una serie ben definita di requisiti[1], ma innnanzitutto, deve essere una PMI: deve occupare meno di 250 dipendenti ed avere un fatturato inferiore a € 50mln o un totale di bilancio[2] minore di 43 milioni[3].

Attenzione: sono ricompresi nel conteggio dei lavoratori anche i collaboratori esterni, gli amministratori, i soci che svolgono una funzione ulteriore rispetto a quella strettamente assembleare (ad esempio i soci lavoratori), gli stagionali e, comunque, tutti i dipendenti a tempo determinato, con esclusione degli stagisti e degli apprendisti.

Ai fini del conteggio si fa riferimento al concetto di ULA (unità lavorativa)[4].

 

I requisiti previsti dall’art. 4, comma 1, DL 3/2015 ricalcano in buona misura quelli richiesti per le start up innovative. Le differenze, oltre quelle strettamente numeriche, sono da ricollegarsi a una differenza sostanziale che contraddistingue le due tipologie di imprese: mentre le start up, come suggerisce la parola stessa, sono delle nuove realtà aziendali neo-costituite, le PMI innovative devono invece essere delle imprese già formate, costituite come società di capitali, anche in forma cooperativa. Infatti, è previsto che debbano presentare il bilancio dell’anno precedente certificato da un revisore contabile o da una società di revisione legale per accedere a detto status, pretesa di certo inapplicabile a una start up.

 

Oltre a ciò, una PMI innovativa deve avere la sede principale in Italia, o in altro Paese membro dell’Unione europea, purché abbia una sede produttiva o una filiale in Italia, e non essere quotata in borsa.

Non deve, poi, essere già iscritta alla sezione speciale delle start up innovative e degli incubatori certificati, ma è bene evidenziare come una start up possa senza soluzione di continuità cancellarsi dalla sezione di origine per passare a quella di PMI innovativa, conservandone inoltre gli incentivi, se compatibili col nuovo status.

 

Infine, e questo è il punto più interessante rispetto alle start up, la PMI, per essere innovativa, deve possedere 2 (e non solo 1) dei seguenti indicatori:

1) volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione in misura almeno pari al 3% (per le start up il 15%) della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione[5];

2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in una quota almeno pari a 1/5 (per le start up 1/3) della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca, o dottorandi o ricercatori da almeno 3 anni in una quota almeno pari a 1/3 (2/3 per le start up) della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale;

3) titolarità, anche quali depositaria o licenziataria, di brevetto o altra privativa industriale o software, purché tale privativa sia direttamente afferente all’oggetto sociale e all’attività di impresa.

 

Nel post del prossimo mese proporremo una panoramica degli incentivi predisposti per le PMI innovative, onde comprenderne appieno i vantaggi sia per l’investitore che per l’imprenditore.

 

[1] art. 4, comma 1, DL 3/2015;

[2] Per totale di bilancio si intende il totale dell’attivo patrimoniale;

[3] Raccomandazione CE 361/2003;

[4] Ad esempio, se un’impresa ha assunto dieci lavoratori con contratto di 6 mesi ai fini del conteggio, le ULA saranno cinque;

[5] Per valore della produzione si intende il fatturato, incrementato delle giacenze della produzione di esercizio, escluse quelle degli anni pregressi.

 

 

Contributo a cura del Dott. Riccardo Ianni.


L’aumento di capitale sociale nelle startup

L’aumento di capitale sociale nelle startup


La delibera di aumento del capitale sociale nelle startup è, di solito, approvata dall’assemblea dei soci di fronte a un notaio e all’unanimità, nonostante l’unanimità non sia richiesta dal nostro ordinamento, che ritiene, invece, sufficiente il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale. Tuttavia, guardando alla prassi, gli investitori richiedono, nella maggior parte dei casi, che la delibera sia approvata da tutti i soci della startup. Questo perché, specie nelle prime fasi di avviamento del progetto, l’investimento si concentrerà più sulle persone che sull’attività in sé per sé, rendendo, quindi, il capitale umano determinante.

Per quanto riguarda il contenuto della delibera in questione, c’è da dire che questo può essere molto vario.

 

Innanzitutto, distinguiamo il caso della scindibilità o inscindibilità dell’aumento di capitale, proponendo un esempio pratico per semplificare il concetto.

Ipotizzando che voglia raccogliere 500.000 € di capitale sociale, la startup si trova di fronte ad una prima scelta di campo:

1 - sottoporre l’efficacia della delibera alla condizione che sia sottoscritta e versata tutta la somma;

2 - oppure non rendere vincolante il conferimento, da parte degli investitori, dell’intera somma, ai fini dell’efficacia della delibera.

 

In questo secondo caso saremmo di fronte ad un aumento c.d. “scindibile” del capitale sociale, nel primo invece si parlerà del c.d. aumento inscindibile.

L’aumento di capitale può poi essere riservato e non riservato.

Il primo consiste in un aumento di capitale in cui i soggetti che potranno sottoscriverlo sono già individuati (es. un investitore con il quale si siano già negoziate le condizioni di investimento e che è quindi pronto a sottoscrivere l’aumento di capitale) o, quantomeno, individuabili (es. sono già arrivate delle manifestazioni di interesse, c.d. soft commitment, nei confronti del progetto, da parte di alcuni soggetti con i quali si andranno poi ad aprire separati tavoli, ai fini della negoziazione per capire quali saranno coloro che effettivamente sottoscriveranno l’aumento del capitale).

 

Proseguendo l’analisi delle modalità di aumento di capitale, bisogna sicuramente distinguere l’aumento di capitale a titolo gratuito da quello a pagamento.

Il primo, molto raro in verità, comporta semplicemente una diversa collocazione in ottica di bilancio delle disponibilità finanziarie di cui la società sia già in possesso: sostanzialmente non ci sarà l’ingresso in cassa di nuove risorse.

Di solito questo tipo di aumento di capitale viene utilizzato per effettuare l’esecuzione di un piano di incentivazione o di un piano di work for equity[1].

 

Più comune è il ricorso ad aumento di capitale a pagamento nel quale, invece, il conferimento di denaro è reale e ci sarà un soggetto che eseguirà un effettivo versamento nelle casse della società e che vede direttamente collegata a questa ipotesi la possibilità di procedere ad un aumento con[2] o senza[3] sovraprezzo. Tendenzialmente, l’aumento di capitale nelle startup sarà con sovrapprezzo, perché quest’ultimo sarà ad una sorta di “dazio” che l’investitore pagherà per entrare a far parte della società e permetterà all’impresa di poter contare su nuove risorse finanziarie utili all’attuazione del suo piano di attività.

 

[1] A titolo esemplificativo, ipotizzando che la startup abbia un capitale sociale nominale di 10.000 €, si potrebbero andare a traslare risorse allocate tra le riserve disponibili procedendo così ad uno “spostamento interno” che darebbe luogo ad aumento di capitale gratuito. Le ulteriori quote (o azioni) che vengono così create potrebbero essere conferite tanto a soggetti già facenti parte della compagine sociale quanto a soggetti esterni, come ad esempio i lavoratori della società, che le riceverebbero a titolo gratuito o, comunque, ad un prezzo di favore.

[2] Il sovrapprezzo, come già spiegato nel post “Come investire in una startup?”, consiste sostanzialmente in un delta positivo che va ad evidenziare la differenza tra il valore di mercato della startup prima dell’investimento (c.d. valore “pre-money”) e il valore di mercato della startup dopo l’investimento (c.d. valore “post money”). Il valore “pre-money” viene definito a seguito della due diligence legale, fiscale e tecnica e vedrà l’assegnazione alla singola quota societaria di un determinato valore di mercato che differirà dal valore nominale, andando a costituire il punto di partenza per l’operazione di investimento.

[3] Sostanzialmente presuppone che il valore di mercato della quota sia stimato come pari al suo valore nominale e quindi l’ipotetico fondo di investimento alpha andrà a versare il solo valore nominale della quota per entrare in società.

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.