La due diligence della startup

La due diligence della startup


La due diligence può avere durata e intensità[1] molto elastiche (che dipendono principalmente dal grado di maturità della startup[2]) e si sostanzia nell’analisi della società da un punto di vista legale, fiscale e tecnico[3].

 

Dal punto di vista legale, ci sarà sicuramente un vaglio documentale[4], che consisterà nello studio analitico dello Statuto e delle sue clausole, nonché degli eventuali patti parasociali[5] stipulati dai soci. Potrà poi seguire un focus di natura giuslavoristica, dove si attenzioneranno le dinamiche di subordinazione o collaborazione instaurate all’interno della società e i profili attinenti al rispetto della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Anche l’analisi degli aspetti che fanno riferimento alla proprietà intellettuale, quali la registrazione dei marchi, l’originalità dei software[6], l’esistenza e l’intestazione di un eventuale nome a dominio, deve trovare spazio in questa importante fase del processo di investimento.

 

Infine, in ambito fiscale, si dovrà andare a verificare che ci sia stato il corretto pagamento delle imposte e delle tasse e che siano stati regolarmente versati i contributi agli enti previdenziali nel caso in cui il soggetto giuridico si sia dotato di personale dipendente.

 

 

[1] Da intendersi come profondità di analisi della società.

[2] La quale, in questo contesto di riferimento, prenderà il nome di “società target” ossia “società – obiettivo”.

[3] Per le startup più mature l’analisi comprenderà anche l’aspetto dei financial.

[4] Di cui si occuperanno, naturalmente, i consulenti dell’investitore.

[5] Sono “accordi privati” che regolamentano alcuni aspetti della vita societaria.

[6] Che dovranno essere poi analizzati anche da un punto di vista tecnico fronte brevettabilità.

 

 

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Investire in PMI innovative

Investire in PMI innovative


Le PMI innovative sono state introdotte nel nostro sistema normativo con il DL 24 gennaio 2015 n. 3, recante “misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”. Un’impresa, per godere di questo status giuridico di favore deve soddisfare una serie ben definita di requisiti[1], ma in primis, per rientrare nel novero di PMI, deve occupare meno di 250 dipendenti ed avere un fatturato inferiore ai € 50mln o un totale di bilancio minore di 43 milioni.

 

La ratio sottesa a tale intervento è senza dubbio quella di favorire la crescita e lo sviluppo tecnologico di quelle piccole e medie realtà imprenditoriali, che costituiscono il motore trainante del nostro Paese, facilitando ed incentivando il ricorso all’investimento privato, da un lato, e prevedendo delle misure pubbliche di sostegno e di agevolazione nell’accesso al credito per le stesse imprese, dall’altro.

 

In tale ottica si collocano misure previste da una serie di interventi legislativi[2], non da ultimo il “D.L. Rilancio”, con un pacchetto di aiuti rivolti a start up e pmi innovative.

Soffermandoci in particolare sugli investimenti, si ritiene opportuno precisare in via preliminare come gli interventi del legislatore in questi anni si siano apprezzati in particolar modo per l’impulso alla creazione di canali di accesso all’investimento smart e rivolti ad una platea sempre più ampia.

 

L’iniezione di liquidità nelle casse delle PMI è stata favorita prevedendo ad esempio dei consistenti sgravi fiscali, pari al 30% dell’investimento, fino a € 1mln per le persone fisiche e € 1,8 per quelle giuridiche, condizionati al mantenimento della partecipazione nella PMI innovativa (holding period) per un minimo di tre anni.

 

Con il “D.L. Rilancio”, poi, la soglia del 30 è stata innalzata, per le persone fisiche, al 50% sino ad una cifra investita pari a € 300.000 ed è stato istituito, attraverso la legge di Bilancio. n. 145/2019, un Fondo di sostegno al Venture capital pari a € 200mln[3]. L’aspetto più interessante del Fondo sembra comunque essere la previsione dello strumento delle obbligazioni convertendo che, in sostituzione delle obbligazioni convertibili, spezzano una lancia in favore delle imprese in quanto producono l’automatica conversione in equity, ossia in azioni, e le aziende godono di tassi di interesse agevolati[4].

 

Inoltre, si è provveduto ad incentivare l’accesso al mercato anche alle categorie di piccoli investitori tramite la creazione di piattaforme online di equity crowdfunding[5], le quali sottendono il duplice scopo di raccogliere fondi e di educare l’investitore retail (alle prime armi) che si approcci magari per la prima volta ad una attività speculativa, attraverso la somministrazione di un questionario preliminare, il cui superamento è prodromico alla corretta sottoscrizione di capitale.

 

Ovviamente la sicurezza dell’investimento online è garantita dalla costante supervisione della Consob ed esiste un apposito elenco di operatori all’uopo autorizzati i quali fanno da recettori della richiesta di investimento, trasmettendola poi alle banche che procedono al perfezionamento della sottoscrizione di capitale presso la PMI innovativa individuata. A differenza del Venture capital, questo è uno strumento di finanziamento (rectius di partecipazione all’azionariato) collocabile nella fase di lancio dell’impresa (per le start up si parla di fase seed), per cui ben si presta a raccogliere cifre certamente inferiori rispetto agli ingenti capitali previsti per quelle successive che vengono definite come fasi early stage, terreno fertile per i Venture capitalist; possono inoltre rinvenirsi difformità di tipo ontologico tra le due soluzioni di investimento prospettate, in quanto quello dei Venture capitalist è generalmente classificabile come investimento prettamente speculativo e non rivolto alla partecipazione societaria.

 

Le misure incentivanti elencate nella trattazione, specialmente quelle rivolte ai “novizi” del settore, sembrano dunque orientate nel senso di promuovere una cultura dell’investimento e dell’innovazione che passi attraverso la conoscenza dell’impresa su cui si decide di puntare ed una partecipazione attiva alla crescita della stessa.

 

[1] art. 4, comma 1, DL 3/2015;

[2] V. in particolare Legge di Bilancio 2017; D.L. 34/2020, c.d. “D.L. Rilancio”;

[3] Per ulteriori approfondimenti sul funzionamento del Fondo: https://www.mauriziomaraglino.it/come-funziona-il-fondo-di-sostegno-al-venture-capital-dedicato-alle-startup-e-pmi-innovative/;

[4] La misura non può che porsi come strumento di tutela nei confronti delle startup, in quanto, mentre con le obbligazioni convertibili, generalmente, le stesse non venivano convertite in azioni ma si trattava di vero e proprio finanziamento, per le obbligazioni convertendo, al momento della loro emissione è già previsto che da capitale di debito si trasformino in quote azionarie.

La logica di questo strumento finanziario sta proprio nel fatto che gli investitori, al termine del percorso, diventino azionisti e quindi il valore delle azioni acquisite con la conversione non sarà più legato al costo che ha avuto l’operazione per l’investitore ma all’andamento del mercato, avendo dunque gli stessi la massima premura affinché la startup cresca in modo solido https://www.economyup.it/startup/fondo-rilancio-perche-il-convertendo-e-un-vantaggio-per-le-startup-ecco-come-funziona/;

[5] https://www.consob.it/web/investor-education/crowdfunding#c2.

 

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Startup: i documenti preliminari in materia di investimenti

Startup: i documenti preliminari in materia di investimenti


Il primo assunto in ambito di documenti preliminari all’investimento nelle startup è che la sostanza prevale sulla forma, perciò io posso anche voler stipulare una lettera d’intenti o un term sheet, ma se in realtà il contenuto di questi documenti corrisponde a quello di un contratto di investimento definitivo sarà quest’ultimo a venire ad esistenza, volente o nolente.

 

Ciò premesso, andiamo ad analizzare nel dettaglio i documenti di cui si tratta.

1. La “lettera di intenti” o “memorandum of understanding” consiste in una manifestazione di interesse, formalizzata in un documento sottoscritto dalle parti, in cui si esprime la volontà di valutare l’investimento e ha un contenuto “soft”, visto che tendenzialmente non vincola l’investitore in alcun modo, eccetto che per quella parte contenente clausole vincolanti, come ad esempio una clausola di esclusiva[1] o una clausola penale[2].

 

2. L’NDA (“non-disclosure agreement”), ossia l’accordo di riservatezza nel quale vengono rivelate delle informazioni riservate all’investitore e ci si tutela affinché le stesse non vengano divulgate all’esterno.

 

3. Il Term sheet, di origine anglo-americana, possiamo definirla come una lettera di intenti “esplosa”, visto il suo contenuto più ampio, alla luce del fatto che può contenere buona parte delle condizioni del contratto di investimento con enunciazione dei diritti richiesti dall’investitore[3].

 

4. Come visto per la lettera d’intenti, anche per il term sheet non può parlarsi di un documento vincolante; tuttavia, maggiore sarà il grado di dettaglio e analiticità delle clausole nello stesso contenute, maggiore sarà il rischio di incorrere in ipotesi di responsabilità precontrattuale, nel caso in cui non si dovesse addivenire alla stipula del contratto di investimento definitivo.

In sostanza, vediamo come questi documenti siano in realtà degli “ibridi” in quanto, sebbene nati per manifestare un mero interesse e per concertizzare a grandi linee le condizioni generali di investimento, vanno poi ad approssimarsi a livello contenutistico in un contratto di investimento vero e proprio.

 

5. Il contratto preliminare[4], infine, è l’unico dei documenti ad avere un effettivo carattere vincolante, in quanto impegna le parti alla stipulazione del contratto definitivo e contiene tutti gli elementi di quest’ultimo.

 

[1] La startup con questa clausola si obbliga a trattare solo e soltanto con un determinato investitore per un determinato periodo di tempo.

[2] Clausola che potrebbe prevedere delle penali in caso di abbandono delle trattative in mala fede (pericolosa da inserire per i problemi ermeneutici che potrebbero sorgere nel giudizio di sussistenza della “mala fede”).

[3] Esempio: una clausola di anti-diluizione che offre agli attuali investitori il diritto di mantenere la loro percentuale di proprietà nella società acquistando un numero proporzionato di nuove azioni in una data futura in cui i titoli saranno emessi.

[4] Poco usato quando si parla di startup.

 

 

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Le fasi del processo di investimento nelle startup.

Le fasi del processo di  investimento nelle startup


Preliminare ad ogni operazione di investimento è l’attenta strutturazione di un time table[1] che ne scandisca le varie fasi: è utile capire come funziona.

Il primo step consiste nella presentazione dell’idea alla base della startup da costituire o della startup esistente, qualora sia già stata costituita e sia operativa, nei vari programmi di accelerazione[2], contest o festival disponibili.

 

In queste sedi, si potrebbe attirare l’attenzione di qualche investitore interessato al progetto e con questo i soci potrebbero cominciare a scambiarsi alcuni documenti preliminari come una lettera d’intenti, un memorandum of understanding[3] o un term sheet[4], senza dimenticare ovviamente la preventiva o quantomeno contestuale richiesta di sottoscrizione di un NDA[5], ossia di un accordo di non divulgazione, da farsi solo qualora ci siano delle informazioni effettivamente riservate che rendano necessaria una tutela di questo tipo[6], onde evitare di creare sin da subito dissapori o diffidenze tra le parti.

 

Successivamente a questo primo scambio documentale, si apre la fase della due diligence in cui i consulenti dell’investitore vanno ad analizzare la startup sotto il profilo legale, fiscale e tecnico[7], nonché dal punto di vista dei financial e quindi delle cosiddette metriche[8] (in pratica, l’aspetto finanziario).

 

Chiaramente, l’intensità e la durata della due diligence è proporzionata al grado di maturità della startup: più la startup è matura, maggiori saranno i controlli da eseguire e, quindi, più si allungheranno i tempi di chiusura di questa fase centrale del processo di investimento, alla quale seguiranno la fase di negoziazione del contratto di investimento vero e proprio, l’aumento di capitale e poi le conseguenziali modifiche dell’atto costitutivo, dello statuto e dei patti parasociali.

Ne parleremo nelle prossime puntate.

 

 

[1] “Tabella di marcia”

[2] I programmi di accelerazione permettono alle startup di accedere a capitali e investimenti in cambio di equity (quote o azioni di minoranza della società stessa con una percentuale che varia a seconda dell’investimento e del valore della startup).

I programmi seed hanno una durata compresa tra i due e quattro mesi e si rivolgono a imprese meno mature offrendo loro servizi (alcuni gratuiti ed altri a pagamento) e fornendo loro l’opportunità di presentare le loro idee a degli investitori tramite presentazioni pubbliche (public pitch event) o giornate dimostrative (demo day). I servizi offerti includono la condivisione di spazi di lavoro, formazione, mentorship, (consulenza fornita dai cosiddetti mentor startup), accesso a risorse tecniche e logistiche (supply chain).

I programmi di second-stage hanno una durata variabile tra i 2 ed i 6 mesi e si rivolgono a startup più strutturate alle quali offrono l’opportunità di connettersi con network di altre imprese dalle quali possono apprendere molto, condividere esperienze e di incrementare le chances di nuove opportunità. Il fine di questi programmi è infatti quello di rafforzare il loro posizionamento nel loro mercato di riferimento.

[3] Termine che in ambito internazionale corrisponde al nostro memorandum d’intesa, ossia un documento giuridico che descrive un accordo bilaterale (o più raramente multilaterale) fra due o più parti. Esso esprime una convergenza di interessi fra le parti, indicando una comune linea di azione prestabilita, piuttosto che un vero e proprio vincolo contrattuale. È un'alternativa più formale rispetto ad un semplice accordo tra gentiluomini (gentlemen's agreement), anche se generalmente non ha il potere di un contratto.

[4] il term sheet è un documento, generalmente redatto dall’investitore, attraverso il quale lo stesso esprime un interesse ad investire nella (e/o acquisire la) startup.

[5] Non-disclosure agreement

[6] Ad esempio un progetto avente ad oggetto la brevettazione di un quid!

[7] Si pensi agli aspetti informatici, sia parte hardware che parte software.

[8] Esistono quattro rapporti di base che vengono spesso utilizzati per selezionare le azioni per i portafogli di investimento. Questi includono il prezzo-guadagno (P/E), l'utile per azione, il debito su capitale e il ritorno sul capitale (ROE).

 

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Le PMI innovative

Le PMI innovative


Le PMI innovative sono state introdotte nel nostro sistema normativo con il DL 3/ 2015, recante “misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”.

 

Questa norma esprime la volontà di incentivazione del concetto di innovazione all’interno delle imprese italiane, ma se ne possono apprezzare gli effetti specialmente in riferimento al valore pratico-strategico; infatti, fino al 2015, gli imprenditori che volessero aprire un’azienda non vedevano nelle forme giuridiche e nelle normative fiscali offerte dalla legge italiana uno strumento di favore o di stimolo a fare impresa.

Considerando poi il divario tecnologico rispetto agli altri competitors europei, una manovra semplificativa sembrava inevitabile.

 

Un’impresa, per ottenere questo stato giuridico di favore deve rispettare una serie ben definita di requisiti[1], ma innnanzitutto, deve essere una PMI: deve occupare meno di 250 dipendenti ed avere un fatturato inferiore a € 50mln o un totale di bilancio[2] minore di 43 milioni[3].

Attenzione: sono ricompresi nel conteggio dei lavoratori anche i collaboratori esterni, gli amministratori, i soci che svolgono una funzione ulteriore rispetto a quella strettamente assembleare (ad esempio i soci lavoratori), gli stagionali e, comunque, tutti i dipendenti a tempo determinato, con esclusione degli stagisti e degli apprendisti.

Ai fini del conteggio si fa riferimento al concetto di ULA (unità lavorativa)[4].

 

I requisiti previsti dall’art. 4, comma 1, DL 3/2015 ricalcano in buona misura quelli richiesti per le start up innovative. Le differenze, oltre quelle strettamente numeriche, sono da ricollegarsi a una differenza sostanziale che contraddistingue le due tipologie di imprese: mentre le start up, come suggerisce la parola stessa, sono delle nuove realtà aziendali neo-costituite, le PMI innovative devono invece essere delle imprese già formate, costituite come società di capitali, anche in forma cooperativa. Infatti, è previsto che debbano presentare il bilancio dell’anno precedente certificato da un revisore contabile o da una società di revisione legale per accedere a detto status, pretesa di certo inapplicabile a una start up.

 

Oltre a ciò, una PMI innovativa deve avere la sede principale in Italia, o in altro Paese membro dell’Unione europea, purché abbia una sede produttiva o una filiale in Italia, e non essere quotata in borsa.

Non deve, poi, essere già iscritta alla sezione speciale delle start up innovative e degli incubatori certificati, ma è bene evidenziare come una start up possa senza soluzione di continuità cancellarsi dalla sezione di origine per passare a quella di PMI innovativa, conservandone inoltre gli incentivi, se compatibili col nuovo status.

 

Infine, e questo è il punto più interessante rispetto alle start up, la PMI, per essere innovativa, deve possedere 2 (e non solo 1) dei seguenti indicatori:

1) volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione in misura almeno pari al 3% (per le start up il 15%) della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione[5];

2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in una quota almeno pari a 1/5 (per le start up 1/3) della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca, o dottorandi o ricercatori da almeno 3 anni in una quota almeno pari a 1/3 (2/3 per le start up) della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale;

3) titolarità, anche quali depositaria o licenziataria, di brevetto o altra privativa industriale o software, purché tale privativa sia direttamente afferente all’oggetto sociale e all’attività di impresa.

 

Nel post del prossimo mese proporremo una panoramica degli incentivi predisposti per le PMI innovative, onde comprenderne appieno i vantaggi sia per l’investitore che per l’imprenditore.

 

[1] art. 4, comma 1, DL 3/2015;

[2] Per totale di bilancio si intende il totale dell’attivo patrimoniale;

[3] Raccomandazione CE 361/2003;

[4] Ad esempio, se un’impresa ha assunto dieci lavoratori con contratto di 6 mesi ai fini del conteggio, le ULA saranno cinque;

[5] Per valore della produzione si intende il fatturato, incrementato delle giacenze della produzione di esercizio, escluse quelle degli anni pregressi.

 

 

Contributo a cura del Dott. Riccardo Ianni.


L’aumento di capitale sociale nelle startup

L’aumento di capitale sociale nelle startup


La delibera di aumento del capitale sociale nelle startup è, di solito, approvata dall’assemblea dei soci di fronte a un notaio e all’unanimità, nonostante l’unanimità non sia richiesta dal nostro ordinamento, che ritiene, invece, sufficiente il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale. Tuttavia, guardando alla prassi, gli investitori richiedono, nella maggior parte dei casi, che la delibera sia approvata da tutti i soci della startup. Questo perché, specie nelle prime fasi di avviamento del progetto, l’investimento si concentrerà più sulle persone che sull’attività in sé per sé, rendendo, quindi, il capitale umano determinante.

Per quanto riguarda il contenuto della delibera in questione, c’è da dire che questo può essere molto vario.

 

Innanzitutto, distinguiamo il caso della scindibilità o inscindibilità dell’aumento di capitale, proponendo un esempio pratico per semplificare il concetto.

Ipotizzando che voglia raccogliere 500.000 € di capitale sociale, la startup si trova di fronte ad una prima scelta di campo:

1 - sottoporre l’efficacia della delibera alla condizione che sia sottoscritta e versata tutta la somma;

2 - oppure non rendere vincolante il conferimento, da parte degli investitori, dell’intera somma, ai fini dell’efficacia della delibera.

 

In questo secondo caso saremmo di fronte ad un aumento c.d. “scindibile” del capitale sociale, nel primo invece si parlerà del c.d. aumento inscindibile.

L’aumento di capitale può poi essere riservato e non riservato.

Il primo consiste in un aumento di capitale in cui i soggetti che potranno sottoscriverlo sono già individuati (es. un investitore con il quale si siano già negoziate le condizioni di investimento e che è quindi pronto a sottoscrivere l’aumento di capitale) o, quantomeno, individuabili (es. sono già arrivate delle manifestazioni di interesse, c.d. soft commitment, nei confronti del progetto, da parte di alcuni soggetti con i quali si andranno poi ad aprire separati tavoli, ai fini della negoziazione per capire quali saranno coloro che effettivamente sottoscriveranno l’aumento del capitale).

 

Proseguendo l’analisi delle modalità di aumento di capitale, bisogna sicuramente distinguere l’aumento di capitale a titolo gratuito da quello a pagamento.

Il primo, molto raro in verità, comporta semplicemente una diversa collocazione in ottica di bilancio delle disponibilità finanziarie di cui la società sia già in possesso: sostanzialmente non ci sarà l’ingresso in cassa di nuove risorse.

Di solito questo tipo di aumento di capitale viene utilizzato per effettuare l’esecuzione di un piano di incentivazione o di un piano di work for equity[1].

 

Più comune è il ricorso ad aumento di capitale a pagamento nel quale, invece, il conferimento di denaro è reale e ci sarà un soggetto che eseguirà un effettivo versamento nelle casse della società e che vede direttamente collegata a questa ipotesi la possibilità di procedere ad un aumento con[2] o senza[3] sovraprezzo. Tendenzialmente, l’aumento di capitale nelle startup sarà con sovrapprezzo, perché quest’ultimo sarà ad una sorta di “dazio” che l’investitore pagherà per entrare a far parte della società e permetterà all’impresa di poter contare su nuove risorse finanziarie utili all’attuazione del suo piano di attività.

 

[1] A titolo esemplificativo, ipotizzando che la startup abbia un capitale sociale nominale di 10.000 €, si potrebbero andare a traslare risorse allocate tra le riserve disponibili procedendo così ad uno “spostamento interno” che darebbe luogo ad aumento di capitale gratuito. Le ulteriori quote (o azioni) che vengono così create potrebbero essere conferite tanto a soggetti già facenti parte della compagine sociale quanto a soggetti esterni, come ad esempio i lavoratori della società, che le riceverebbero a titolo gratuito o, comunque, ad un prezzo di favore.

[2] Il sovrapprezzo, come già spiegato nel post “Come investire in una startup?”, consiste sostanzialmente in un delta positivo che va ad evidenziare la differenza tra il valore di mercato della startup prima dell’investimento (c.d. valore “pre-money”) e il valore di mercato della startup dopo l’investimento (c.d. valore “post money”). Il valore “pre-money” viene definito a seguito della due diligence legale, fiscale e tecnica e vedrà l’assegnazione alla singola quota societaria di un determinato valore di mercato che differirà dal valore nominale, andando a costituire il punto di partenza per l’operazione di investimento.

[3] Sostanzialmente presuppone che il valore di mercato della quota sia stimato come pari al suo valore nominale e quindi l’ipotetico fondo di investimento alpha andrà a versare il solo valore nominale della quota per entrare in società.

 

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Come investire in una startup?

Come investire in una startup?


Per comprendere le dinamiche relativa al finanziamento delle startup, bisogna tenere in considerazione tanto i soggetti coinvolti nel processo di investimento quanto l’oggetto dell’investimento, consistente nelle modalità di raccolta del capitale di rischio.

Sotto il profilo soggettivo, ricordiamo che esiste una naturale divisione tra la startup e le figure professionali ad essa collegate (amministratori - persone fisiche ed eventuali soggetti in forma societaria come “Business Angel” o “acceleratori”) da un lato, e gli investitori, nella maggior parte dei casi rappresentati da fondi di investimento, dall’altro.

Da qui si apre un’ulteriore bipartizione rispetto al grado di maturazione della società target destinataria dell’investimento; investimento che può riguardare, infatti, una startup costituita o una startup ancora da creare.

Nel caso di una realtà societaria già costituita, il processo di investimento avviene per lo più ricorrendo all’aumento di capitale con sovraprezzo, che sarebbe bene spiegare con un esempio: ipotizziamo che la startup abbia un capitale sociale pari ad € 10.000 e sia composta da due soci che decidono di deliberare un aumento di capitale sociale a pagamento con sovrapprezzo, riservato al Fondo di Investimento Alfa, il quale entrerà nella compagine sociale con una quota pari al 33,33%, per un investimento complessivo di capitale di rischio pari a € 200.000. In questo caso, 5.000 € verranno imputati a capitale che passerà così da 10.000 a 15.000 € e i restanti 195.000 € verranno invece imputati a riserva da sovrapprezzo, con una cap table finale che vedrà i due soci e il Fondo di Investimento Alfa, titolari ciascuno di una quota di valore nominale pari ad € 5.000 e rappresentativa del 33,33% del capitale sociale della startup.

Il sovrapprezzo è, quindi, costituito dalla differenza positiva esistente tra il valore della startup al momento della costituzione e quello al momento dell’aumento di capitale e, pertanto, dalla differenza tra la somma effettivamente versata (€ 200.000) e la somma necessaria all’aumento di un terzo del capitale sociale (€ 5.000): in buona sostanza può dirsi che il sovrapprezzo costituisce il prezzo per consentire a soggetti terzi di entrare nella compagine societaria.

Oltre che facendo ricorso all’aumento di capitale con sovrapprezzo, si può realizzare l’investimento anche per il tramite di un acquisto quote, sebbene si tratti di una pratica superata e dal risultato meno immediato in quanto il denaro passa dalle tasche dell’investitore alle tasche dei singoli soci e non invece direttamente alle casse della società, come avviene nel caso dell’aumento di capitale con sovrapprezzo.

Non è raro, invece, il ricorso a c.d. “operazioni miste”, soprattutto per le startup più mature, nelle quali si esegue, a fini di investimento, in parte un acquisto di quote e in parte un aumento di capitale con sovrapprezzo.

Qualora le logiche di investimento fossero rivolte ad una startup ancora da creare, il contributo consisterà in un’iniezione di liquidità, non per forza formalizzata, finalizzata a dare la prima benzina ai futuri membri della società, così che questi possano realizzare un MVP (Minimum Viable Product)[1] e naturalmente, al momento della costituzione della stessa, l’investitore entrerà direttamente nel capitale sociale della startup.

[1] L’MVP consiste nella versione iniziale del prodotto: quest’ultimo viene sviluppato con i minori costi possibili e con le caratteristiche sufficienti ad essere testato velocemente dai primi utilizzatori.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Sentenza BMPS: poca attenzione allo statuto giuridico dell'Organismo di vigilanza

Sentenza BMPS: poca attenzione allo statuto giuridico dell'Organismo di vigilanza


Pubblichiamo volentieri su gentile concessione dell'Autore, Avv. Maurizio Arena, membro del nostro Comitato Scientifico.

Una recente sentenza del Tribunale di Milano (II penale, depositata il 7 aprile 2021) ha condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena ad una sanzione pecuniaria di 800mila euro per i reati di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato (artt. 25-ter e 25-sexies d.lg. 231/2001).

La sentenza è molto ponderosa ma soltanto 9 pagine delle 359 complessive sono dedicate alla responsabilità dell’ente e, di queste, solo la metà esamina la compliance preventiva.

La sentenza opera una sorta di spartiacque temporale:

1 - prima dell’ottobre 2013: il modello organizzativo era stato adottato ma era inadeguato.

La vera e propria colpa organizzativa viene peraltro “motivata” in poche righe, anche con un accenno all'insufficienza del sistema di controllo interno comunque esistente.

Sembra che il Tribunale abbia sancito l’inidoneità del Modello sulla base della circostanza che esso sia stato successivamente aggiornato e migliorato.

E questo è, purtroppo, un approccio già emerso in altri processi.

A mio avviso una vicenda di aggiornamento di un Modello può costituire mero indizio nel senso dell'incompletezza della versione precedente ma tale presunta incompletezza deve essere autonomamente spiegata in sentenza.

Il Giudice deve prendere posizione frontale sul tema senza ricorrere a facili presunzioni del tipo: "se il Modello è stato ampiamente integrato vuole dire che il testo di partenza non era adeguato".

La motivazione avrebbe dovuto prendere posizione sui seguenti quesiti (peraltro con riferimento precipuo ai reati in contestazione): perchè difettava la mappatura delle aree a rischio? perchè non erano sufficienti i protocolli volti alla prevenzione dei reati? perchè erano insufficienti i flussi informativi in favore dell'OdV? perchè era insufficiente il sistema disciplinare?

Invece si affermano sic et simpliciter tali mancanze.

2 - dopo l’approvazione del Modello aggiornato ad ottobre 2013: OdV (adeguato nella composizione ma) insufficiente nell’attività di iniziativa e controllo.

Nulla si dice – per questa seconda fase temporale - su tutto il resto e, in particolare, sull’idoneità/attuazione del Modello, delle procedure sulle attività sensibili, dei flussi informativi ecc.: in definitiva viene sancita la responsabilità dell’ente esclusivamente in relazione all’insufficiente vigilanza dell’OdV (la sentenza parla a proposito di “aspetto dirimente”).

In effetti, il Tribunale esclude in due righe pure l'elusione fraudolenta del Modello "violato nella generalizzata e diffusa indifferenza": ma l'elusione fraudolenta dovrebbe essere considerata in relazione al contenuto precettivo del Modello e delle sue regole cautelari.

Nulla di tutto ciò nel caso di specie.

Si può certamente escludere l’esimente anche per la sussistenza di uno soltanto degli elementi richiesti dall’art 6: ad esempio, per omessa o insufficiente vigilanza dell’OdV.

Non mi pare però che, nella sostanza, si possa parlare di colpa organizzativa: la società ha adempiuto ai suoi doveri di compliance adottando e aggiornando il Modello ed istituendo un idoneo OdV: la sentenza nulla eccepisce su tale ultimo profilo, in termini di difetto di autonomia ed indipendenza, di continuità d’azione e di competenza professionale.

Tuttavia, il punto cruciale mi pare un altro.

La sentenza ritiene di ravvisare una serie di presunte mancanze dell’OdV che avrebbe dovuto andare più a fondo su temi in parte già rilevati in sede ispettiva dalla Banca d’Italia e oggetto, prima, di notizie di stampa e, poi, di contestazione giudiziaria.

Appartengono senza dubbio alla best practice in tema di svolgimento delle funzioni di OdV i seguenti adempimenti:

  • approfondimento di temi critici con l’ufficio legale;
  • approfondimento di tematiche amministrative-finanziarie con il CFO;
  • approfondimento di temi contabili di rilievo con i revisori e i sindaci (specie se tali controllori evidenziano l’esistenza di operazioni con alcune anomalie);
  • approfondimento con il Dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari.

 

Vale a dire: approfondimento di profili specifici di compliance con i soggetti/organi/funzioni che hanno una primaria responsabilità gestionale o di controllo e monitoraggio di quei profili.

Si può aggiungere che, certamente, tali argomenti critici devono essere sempre presenti all’ordine del giorno delle riunioni dell’OdV, almeno da un certo momento in poi, quando esplode la “crisi 231”: opportuno, in questi casi il confronto con i difensori in sede penale.

Rilevano, infine, la tempestività delle iniziative e le sollecitazioni dei flussi informativi da parte dell’OdV, se necessario.

Tutto assolutamente condivisibile e ben noto agli addetti ai lavori (anche se repetita iuvant).

Tuttavia, la sentenza, dopo aver evidenziato il fatto che non vi sia stato un “confronto sostanziale sul tema contabile” ormai esploso, aggiunge che l’OdV ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi ad insignificanti prese d’atto nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa fino alla debacle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato.

In altri termini: l’OdV avrebbe potuto impedire le successive contestazioni di falso in bilancio e manipolazione del mercato.

Certamente qui si sta parlando di questo tema ai fini dell’esimente e non ai fini della responsabilità penale dell’OdV per omesso impedimento.

Però affermare che "un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato" le successive contestazioni è un assioma: in quali termini l’OdV avrebbe potuto scongiurare i reati successivi? Con quali poteri e in virtù di quali iniziative? perchè si ritiene che l'impedimento sarebbe stato certo?

L'OdV, anche se si fosse convinto della potenziale illiceità delle modalità di registrazione in contabilità delle operazioni contestate, avrebbe soltanto potuto (e dovuto) comunicare al Consiglio di amministrazione, ai sindaci e ai revisori (e non certo all’esterno della società) che si stava correndo il rischio di ulteriori contestazioni in sede penale, anche ai sensi del d.lg. 231.

Dire che l’OdV avrebbe potuto scongiurare i reati successivi è affermazione che non mi sembra rispettosa dello statuto giuridico dell’OdV, avuto riguardo ai suoi poteri e ai suoi rapporti con altri soggetti dell'azienda; aggiungere che questo risultato si sarebbe prodotto “certamente” pare assolutamente immotivato.

Il passaggio motivazionale in esame è, infine, potenzialmente foriero di sviluppi (ugualmente non condivisibili) in tema di responsabilità omissiva dell’OdV.

Secondo alcune voci, costui, anche in mancanza di poteri impeditivi in senso stretto, potrebbe essere rimproverato per non aver impedito il reato insieme ad altri (il c.d. contesto collaborativo): una sorta di prevenzione indiretta che si fonda sul pernicioso "qualcosa poteva fare".

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


L’importanza del requisito della descrizione nella domanda di brevetto

L’importanza del requisito della descrizione nella domanda di brevetto


L’art. 76 del codice della proprietà industriale contiene un elenco di ipotesi per le quali il brevetto può essere dichiarato nullo, tra cui è ricompresa ad esempio la carenza dei ben noti requisiti di novità, originalità, industrialità e liceità.

Secondo la lettera b del comma 1 dell’articolo, il brevetto è inoltre nullo se “l'invenzione non è descritta in modo sufficientemente chiaro e completo da consentire a persona esperta di attuarla[1].

Secondo una costante giurisprudenza[2], il testo è da intendersi nel senso che il tecnico del ramo deve poter attuare tale invenzione senza ulteriori ricerche e sperimentazioni[3], non essendo configurabile un intervento successivo del ctu o un’integrazione postuma dello stesso inventore.

Assodato ciò, occorre prendere nota dell’atteggiamento piuttosto rigoroso mostrato dalla giurisprudenza sul punto, che, differentemente da quanto si possa immaginare, si è assestata su un’interpretazione piuttosto formalistica del comma: invero, è possibile osservare come numerose domande siano state respinte perché ritenute carenti sotto il lato descrittivo, non solo in quanto il giudice riteneva che, seguendo la lettera dell’articolo, l’esperto del ramo non fosse in grado di attuare l’invenzione, ma anche laddove il brevetto difettasse della precipua indicazione del problema che si intendesse risolvere o delle specifiche modalità utilizzate[4].

In contrapposizione a quanto sinora prospettato, una certa dottrina, valorizzando l’aspetto sostanziale[5] (ossia il fatto che il brevetto possegga, di fatto, i requisiti di brevettabilità), sembra assumere una posizione senz’altro più aderente al testo della norma e, di conseguenza, più vicina alle legittime aspettative del richiedente, relegando l’aspetto descrittivo ad un mero elemento di contorno e di completamento del dato materiale (che è costituito invece dalla sua oggettiva apprezzabilità-utilità[6]), evitando così il rischio di confondere “l’esigenza che l’invenzione sia nuova e originale con l’esigenza che il brevetto spieghi per quali motivi essa lo sarebbe”[7].

Sebbene condivisibile, la suddetta presa di posizione non sempre ha fatto breccia in sede giudiziale[8]: al contrario, spesso i giudici, in sede di valutazione, si sono spinti anche oltre ritenendo che la suddetta carenza descrittiva potesse riflettersi negativamente anche su un altro requisito, ossia quello della novità. Ed infatti, a loro avviso, non potendosi addivenire ad una corretta qualificazione del trovato a causa della non perfetta descrizione, risultava poi in concreto anche difficile rilevarne l’apporto innovativo.

Al contrario, occorre constatare come una rilevata carenza sul lato descrittivo, così come inteso dalla giurisprudenza, si sia anzi riverberata negativamente sul requisito sostanziale della novità[9], rendendo dunque il brevetto carente anche sotto tale profilo, in quanto la descrizione non permetteva di addivenire alla corretta qualificazione dell’apporto in termini innovativi del trovato.

È bene dunque, in fase di redazione della domanda, apprestare le premure del caso ai fini di una puntuale ed esaustiva descrizione del brevetto, anche a rischio di risultare ridondanti, ma pur sempre efficaci.

 

 

[1] Con persona esperta si intende far riferimento al ctu a tal fine delegato in sede di valutazione del brevetto;

[2] Trib. Bologna, 3-3-2010, in Riv. Dir. Ind. 2010, IV, 305 ss; v. anche Cass. 4-11-2009, n. 23414; Trib. Milano 8-12-2008, ivi, 2009, 221; Trib. Milano 5-7-2005, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4884; App. Milano 25-6-2002, ivi, 4504: Trib. Torino 24-5-2001, ivi, 4294; contra Trib. Milano 23-9-2003, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4592

[3] Trib. Milano, 8-5-2015 n. 5846; Cass. 23414/2009;

[4] Cass. 4-11-2009, n. 23414; Trib. Milano 5-07-2005, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4884; App. Milano 25-6-2002, ivi, 4504; Trib. Torino 24-5-2001, ivi, 4294;

[5] I. M. Prado, Invalidità del brevetto per mancata individuazione del problema tecnico, in Riv. Dir. Ind. 2010, IV, 316 ss..; v. anche nota 5: Cartella, L’implementazione della domanda di brevetto tra vecchie e nuove norme, ivi, 2010, 113 e ss; Franzosi, in Riv. dir. ind., 2001, I, 65, «Un’invenzione è descritta in maniera sufficiente anche se tutti i dettagli tecnici non sono espressi, se l’esperto è in grado di completare la descrizione con la propria preparazione tecnica (la conoscenza generale - common general knowledge - di cui dispone l’esperto dello specifico settore della tecnologia), e di riprodurre l’invenzione senza eccessivo sforzo»;

[6] Coerentemente con la funzione tipica dell’istituto brevettuale di promozione dello sviluppo scientifico e tecnico, la dottrina ritiene preferibile una visione sostanziale, considerando brevettabile il trovato laddove sia in grado di raggiungere il proprio scopo, al di là di meri formalismi;

[7] I. M. Prado, ibidem, “ciò che si richiede è che l’invenzione sia brevettabile, cioè che possegga i requisiti di validità: ma non cessa di possederli giusto perché non “dice” ovvero non “spiega” che li possiede”.

[8] Cass. 22-11-2010, n. 23592; Cass., 23414/2009; Cass., 8510/2008; Cass., 8735/1998; v. anche Trib. Bologna, 14664/2010, in www.giurisprudenzadelleimprese.it: in considerazione dei principi sottesi all’istituto brevettuale, in un’ottica di contemperamento della finalità del progresso scientifico e della libera fruizione da parte dei consociati con il diritto di proprietà industriale vantato dal titolare, legittimato al suo sfruttamento in via esclusiva, la descrizione svolge una funzione apprezzabile sia sotto un profilo prettamente tecnico-inventivo, sia, conseguentemente, divulgativo. Ergo, una carenza di descrizione nel titolo non può essere superata neppure quando il ctu ravvisi in concreto i requisiti sostanziali di una valida invenzione;

[9] v. in tal senso anche App., 1677/2005: nel caso di specie, la descrizione era caratterizzata “da una non sufficiente esplicazione in punto di illustrazione della novità anche intrinseca del trovato”. Detta carenza non rende neppure percepibile in concreto l’esistenza o meno della novità intrinseca del trovato”.

 

Contributo a cura del Dott. Riccardo Ianni.


Pesi e contrappesi nei rapporti tra startup e investitori

Pesi e contrappesi nei rapporti tra startup e investitori


Gli imprenditori, specie se di giovane età, tendono sempre più ad usare le startup come forme societarie privilegiate, per via delle agevolazioni economiche e fiscali riservate a queste imprese emergenti.

 

Un problema tipico di queste realtà è la ricerca continua (a volte esasperata) di iniezioni di liquidità, da parte di investitori terzi, necessarie per operare sul mercato, crescere e diventare sempre più autonoma finanziariamente; che questo investimenti promanino dai c.d. “business angels[1]” o da una base di “azionariato corale[2]” come nel caso del crowdfunding, quel che emerge con una certa frequenza è l’asimmetria informativa tra gli investitori, da un lato, e le start up, dall’altro, con ovvio danno per queste ultime.

 

Difatti, capita spesso che per ingenerare fiducia nei soggetti che dovranno andare a rimpolpare le finanze societarie, gli startupper tendano a non esprimere dubbi e perplessità circa i termini della trattativa in corso, sebbene nella realtà non abbiano il quadro di quest’ultima completamente chiaro. Questa situazione sconveniente per entrambi gli interlocutori e che tende a generare sfiducia e diffidenza tra le parti, spesso si verifica quando non ci sono molti investitori con cui negoziare per un determinato progetto e quindi aumenta il principio di necessità a fronte del principio di opportunità[3].

 

La realtà delle cose è che gli investitori fanno delle richieste che le startup possono (e devono) negoziare nella giusta misura, in base a poche e ragionate priorità di business, che devono presupporre una chiarissima consapevolezza di quello che si può chiedere e soprattutto di come va chiesto: pertanto, è cosa buona e giusta andare a “scavare” nelle clausole che non entusiasmano particolarmente lo startupper, sollevando obiezioni che dimostrino consapevolezza e conoscenza della materia, ma senza dimenticare le ragioni ed esigenze che animano e sono alla base delle attenzioni e degli interessi delle controparti, desiderose di scorgere il tornaconto economico, quantomeno nel medio-lungo periodo.

 

Abbiamo deciso di avviare un percorso di spiegazione delle clausole di M&A più frequenti ed importanti, a partire dalla prossima puntata.

 

[1] I Business Angels sono tipologie di investitori che investono nella fase seed, ossia iniziale, anche precedente alla effettiva costituzione della startup e tendono per lo più ad investire in imprese che lavorano in settori già da loro conosciuti. Un Business Angel opera indicativamente su dimensioni di intervento tra i 10.000€ ed i 500.000€ e avendo un’approfondita conoscenza del settore di mercato della neonata società è in grado svolgere la due diligence in modo veloce ed a costi ovviamente contenuti, favorendo di fatto la creazione dal basso di nuove startup.

[2] In questa dizione possono ricomprendersi, oltre al crowdfunding, l’azionariato popolare e i supporters’ trust.

[3] Il principio di opportunità-necessità esplicita una dinamica abbastanza intuitiva, cioè che il grado di negoziabilità di una trattativa decresce al decrescere del numero di interlocuzioni possibili con soggetti disposti ad investire nel progetto.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.