Come investire in una startup?

Come investire in una startup?


Per comprendere le dinamiche relativa al finanziamento delle startup, bisogna tenere in considerazione tanto i soggetti coinvolti nel processo di investimento quanto l’oggetto dell’investimento, consistente nelle modalità di raccolta del capitale di rischio.

Sotto il profilo soggettivo, ricordiamo che esiste una naturale divisione tra la startup e le figure professionali ad essa collegate (amministratori - persone fisiche ed eventuali soggetti in forma societaria come “Business Angel” o “acceleratori”) da un lato, e gli investitori, nella maggior parte dei casi rappresentati da fondi di investimento, dall’altro.

Da qui si apre un’ulteriore bipartizione rispetto al grado di maturazione della società target destinataria dell’investimento; investimento che può riguardare, infatti, una startup costituita o una startup ancora da creare.

Nel caso di una realtà societaria già costituita, il processo di investimento avviene per lo più ricorrendo all’aumento di capitale con sovraprezzo, che sarebbe bene spiegare con un esempio: ipotizziamo che la startup abbia un capitale sociale pari ad € 10.000 e sia composta da due soci che decidono di deliberare un aumento di capitale sociale a pagamento con sovrapprezzo, riservato al Fondo di Investimento Alfa, il quale entrerà nella compagine sociale con una quota pari al 33,33%, per un investimento complessivo di capitale di rischio pari a € 200.000. In questo caso, 5.000 € verranno imputati a capitale che passerà così da 10.000 a 15.000 € e i restanti 195.000 € verranno invece imputati a riserva da sovrapprezzo, con una cap table finale che vedrà i due soci e il Fondo di Investimento Alfa, titolari ciascuno di una quota di valore nominale pari ad € 5.000 e rappresentativa del 33,33% del capitale sociale della startup.

Il sovrapprezzo è, quindi, costituito dalla differenza positiva esistente tra il valore della startup al momento della costituzione e quello al momento dell’aumento di capitale e, pertanto, dalla differenza tra la somma effettivamente versata (€ 200.000) e la somma necessaria all’aumento di un terzo del capitale sociale (€ 5.000): in buona sostanza può dirsi che il sovrapprezzo costituisce il prezzo per consentire a soggetti terzi di entrare nella compagine societaria.

Oltre che facendo ricorso all’aumento di capitale con sovrapprezzo, si può realizzare l’investimento anche per il tramite di un acquisto quote, sebbene si tratti di una pratica superata e dal risultato meno immediato in quanto il denaro passa dalle tasche dell’investitore alle tasche dei singoli soci e non invece direttamente alle casse della società, come avviene nel caso dell’aumento di capitale con sovrapprezzo.

Non è raro, invece, il ricorso a c.d. “operazioni miste”, soprattutto per le startup più mature, nelle quali si esegue, a fini di investimento, in parte un acquisto di quote e in parte un aumento di capitale con sovrapprezzo.

Qualora le logiche di investimento fossero rivolte ad una startup ancora da creare, il contributo consisterà in un’iniezione di liquidità, non per forza formalizzata, finalizzata a dare la prima benzina ai futuri membri della società, così che questi possano realizzare un MVP (Minimum Viable Product)[1] e naturalmente, al momento della costituzione della stessa, l’investitore entrerà direttamente nel capitale sociale della startup.

[1] L’MVP consiste nella versione iniziale del prodotto: quest’ultimo viene sviluppato con i minori costi possibili e con le caratteristiche sufficienti ad essere testato velocemente dai primi utilizzatori.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Sentenza BMPS: poca attenzione allo statuto giuridico dell'Organismo di vigilanza

Sentenza BMPS: poca attenzione allo statuto giuridico dell'Organismo di vigilanza


Pubblichiamo volentieri su gentile concessione dell'Autore, Avv. Maurizio Arena, membro del nostro Comitato Scientifico.

Una recente sentenza del Tribunale di Milano (II penale, depositata il 7 aprile 2021) ha condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena ad una sanzione pecuniaria di 800mila euro per i reati di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato (artt. 25-ter e 25-sexies d.lg. 231/2001).

La sentenza è molto ponderosa ma soltanto 9 pagine delle 359 complessive sono dedicate alla responsabilità dell’ente e, di queste, solo la metà esamina la compliance preventiva.

La sentenza opera una sorta di spartiacque temporale:

1 - prima dell’ottobre 2013: il modello organizzativo era stato adottato ma era inadeguato.

La vera e propria colpa organizzativa viene peraltro “motivata” in poche righe, anche con un accenno all'insufficienza del sistema di controllo interno comunque esistente.

Sembra che il Tribunale abbia sancito l’inidoneità del Modello sulla base della circostanza che esso sia stato successivamente aggiornato e migliorato.

E questo è, purtroppo, un approccio già emerso in altri processi.

A mio avviso una vicenda di aggiornamento di un Modello può costituire mero indizio nel senso dell'incompletezza della versione precedente ma tale presunta incompletezza deve essere autonomamente spiegata in sentenza.

Il Giudice deve prendere posizione frontale sul tema senza ricorrere a facili presunzioni del tipo: "se il Modello è stato ampiamente integrato vuole dire che il testo di partenza non era adeguato".

La motivazione avrebbe dovuto prendere posizione sui seguenti quesiti (peraltro con riferimento precipuo ai reati in contestazione): perchè difettava la mappatura delle aree a rischio? perchè non erano sufficienti i protocolli volti alla prevenzione dei reati? perchè erano insufficienti i flussi informativi in favore dell'OdV? perchè era insufficiente il sistema disciplinare?

Invece si affermano sic et simpliciter tali mancanze.

2 - dopo l’approvazione del Modello aggiornato ad ottobre 2013: OdV (adeguato nella composizione ma) insufficiente nell’attività di iniziativa e controllo.

Nulla si dice – per questa seconda fase temporale - su tutto il resto e, in particolare, sull’idoneità/attuazione del Modello, delle procedure sulle attività sensibili, dei flussi informativi ecc.: in definitiva viene sancita la responsabilità dell’ente esclusivamente in relazione all’insufficiente vigilanza dell’OdV (la sentenza parla a proposito di “aspetto dirimente”).

In effetti, il Tribunale esclude in due righe pure l'elusione fraudolenta del Modello "violato nella generalizzata e diffusa indifferenza": ma l'elusione fraudolenta dovrebbe essere considerata in relazione al contenuto precettivo del Modello e delle sue regole cautelari.

Nulla di tutto ciò nel caso di specie.

Si può certamente escludere l’esimente anche per la sussistenza di uno soltanto degli elementi richiesti dall’art 6: ad esempio, per omessa o insufficiente vigilanza dell’OdV.

Non mi pare però che, nella sostanza, si possa parlare di colpa organizzativa: la società ha adempiuto ai suoi doveri di compliance adottando e aggiornando il Modello ed istituendo un idoneo OdV: la sentenza nulla eccepisce su tale ultimo profilo, in termini di difetto di autonomia ed indipendenza, di continuità d’azione e di competenza professionale.

Tuttavia, il punto cruciale mi pare un altro.

La sentenza ritiene di ravvisare una serie di presunte mancanze dell’OdV che avrebbe dovuto andare più a fondo su temi in parte già rilevati in sede ispettiva dalla Banca d’Italia e oggetto, prima, di notizie di stampa e, poi, di contestazione giudiziaria.

Appartengono senza dubbio alla best practice in tema di svolgimento delle funzioni di OdV i seguenti adempimenti:

  • approfondimento di temi critici con l’ufficio legale;
  • approfondimento di tematiche amministrative-finanziarie con il CFO;
  • approfondimento di temi contabili di rilievo con i revisori e i sindaci (specie se tali controllori evidenziano l’esistenza di operazioni con alcune anomalie);
  • approfondimento con il Dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari.

 

Vale a dire: approfondimento di profili specifici di compliance con i soggetti/organi/funzioni che hanno una primaria responsabilità gestionale o di controllo e monitoraggio di quei profili.

Si può aggiungere che, certamente, tali argomenti critici devono essere sempre presenti all’ordine del giorno delle riunioni dell’OdV, almeno da un certo momento in poi, quando esplode la “crisi 231”: opportuno, in questi casi il confronto con i difensori in sede penale.

Rilevano, infine, la tempestività delle iniziative e le sollecitazioni dei flussi informativi da parte dell’OdV, se necessario.

Tutto assolutamente condivisibile e ben noto agli addetti ai lavori (anche se repetita iuvant).

Tuttavia, la sentenza, dopo aver evidenziato il fatto che non vi sia stato un “confronto sostanziale sul tema contabile” ormai esploso, aggiunge che l’OdV ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi ad insignificanti prese d’atto nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa fino alla debacle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato.

In altri termini: l’OdV avrebbe potuto impedire le successive contestazioni di falso in bilancio e manipolazione del mercato.

Certamente qui si sta parlando di questo tema ai fini dell’esimente e non ai fini della responsabilità penale dell’OdV per omesso impedimento.

Però affermare che "un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato" le successive contestazioni è un assioma: in quali termini l’OdV avrebbe potuto scongiurare i reati successivi? Con quali poteri e in virtù di quali iniziative? perchè si ritiene che l'impedimento sarebbe stato certo?

L'OdV, anche se si fosse convinto della potenziale illiceità delle modalità di registrazione in contabilità delle operazioni contestate, avrebbe soltanto potuto (e dovuto) comunicare al Consiglio di amministrazione, ai sindaci e ai revisori (e non certo all’esterno della società) che si stava correndo il rischio di ulteriori contestazioni in sede penale, anche ai sensi del d.lg. 231.

Dire che l’OdV avrebbe potuto scongiurare i reati successivi è affermazione che non mi sembra rispettosa dello statuto giuridico dell’OdV, avuto riguardo ai suoi poteri e ai suoi rapporti con altri soggetti dell'azienda; aggiungere che questo risultato si sarebbe prodotto “certamente” pare assolutamente immotivato.

Il passaggio motivazionale in esame è, infine, potenzialmente foriero di sviluppi (ugualmente non condivisibili) in tema di responsabilità omissiva dell’OdV.

Secondo alcune voci, costui, anche in mancanza di poteri impeditivi in senso stretto, potrebbe essere rimproverato per non aver impedito il reato insieme ad altri (il c.d. contesto collaborativo): una sorta di prevenzione indiretta che si fonda sul pernicioso "qualcosa poteva fare".

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


L’importanza del requisito della descrizione nella domanda di brevetto

L’importanza del requisito della descrizione nella domanda di brevetto


L’art. 76 del codice della proprietà industriale contiene un elenco di ipotesi per le quali il brevetto può essere dichiarato nullo, tra cui è ricompresa ad esempio la carenza dei ben noti requisiti di novità, originalità, industrialità e liceità.

Secondo la lettera b del comma 1 dell’articolo, il brevetto è inoltre nullo se “l'invenzione non è descritta in modo sufficientemente chiaro e completo da consentire a persona esperta di attuarla[1].

Secondo una costante giurisprudenza[2], il testo è da intendersi nel senso che il tecnico del ramo deve poter attuare tale invenzione senza ulteriori ricerche e sperimentazioni[3], non essendo configurabile un intervento successivo del ctu o un’integrazione postuma dello stesso inventore.

Assodato ciò, occorre prendere nota dell’atteggiamento piuttosto rigoroso mostrato dalla giurisprudenza sul punto, che, differentemente da quanto si possa immaginare, si è assestata su un’interpretazione piuttosto formalistica del comma: invero, è possibile osservare come numerose domande siano state respinte perché ritenute carenti sotto il lato descrittivo, non solo in quanto il giudice riteneva che, seguendo la lettera dell’articolo, l’esperto del ramo non fosse in grado di attuare l’invenzione, ma anche laddove il brevetto difettasse della precipua indicazione del problema che si intendesse risolvere o delle specifiche modalità utilizzate[4].

In contrapposizione a quanto sinora prospettato, una certa dottrina, valorizzando l’aspetto sostanziale[5] (ossia il fatto che il brevetto possegga, di fatto, i requisiti di brevettabilità), sembra assumere una posizione senz’altro più aderente al testo della norma e, di conseguenza, più vicina alle legittime aspettative del richiedente, relegando l’aspetto descrittivo ad un mero elemento di contorno e di completamento del dato materiale (che è costituito invece dalla sua oggettiva apprezzabilità-utilità[6]), evitando così il rischio di confondere “l’esigenza che l’invenzione sia nuova e originale con l’esigenza che il brevetto spieghi per quali motivi essa lo sarebbe”[7].

Sebbene condivisibile, la suddetta presa di posizione non sempre ha fatto breccia in sede giudiziale[8]: al contrario, spesso i giudici, in sede di valutazione, si sono spinti anche oltre ritenendo che la suddetta carenza descrittiva potesse riflettersi negativamente anche su un altro requisito, ossia quello della novità. Ed infatti, a loro avviso, non potendosi addivenire ad una corretta qualificazione del trovato a causa della non perfetta descrizione, risultava poi in concreto anche difficile rilevarne l’apporto innovativo.

Al contrario, occorre constatare come una rilevata carenza sul lato descrittivo, così come inteso dalla giurisprudenza, si sia anzi riverberata negativamente sul requisito sostanziale della novità[9], rendendo dunque il brevetto carente anche sotto tale profilo, in quanto la descrizione non permetteva di addivenire alla corretta qualificazione dell’apporto in termini innovativi del trovato.

È bene dunque, in fase di redazione della domanda, apprestare le premure del caso ai fini di una puntuale ed esaustiva descrizione del brevetto, anche a rischio di risultare ridondanti, ma pur sempre efficaci.

 

 

[1] Con persona esperta si intende far riferimento al ctu a tal fine delegato in sede di valutazione del brevetto;

[2] Trib. Bologna, 3-3-2010, in Riv. Dir. Ind. 2010, IV, 305 ss; v. anche Cass. 4-11-2009, n. 23414; Trib. Milano 8-12-2008, ivi, 2009, 221; Trib. Milano 5-7-2005, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4884; App. Milano 25-6-2002, ivi, 4504: Trib. Torino 24-5-2001, ivi, 4294; contra Trib. Milano 23-9-2003, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4592

[3] Trib. Milano, 8-5-2015 n. 5846; Cass. 23414/2009;

[4] Cass. 4-11-2009, n. 23414; Trib. Milano 5-07-2005, in Giur. Ann. Dir. Ind., 4884; App. Milano 25-6-2002, ivi, 4504; Trib. Torino 24-5-2001, ivi, 4294;

[5] I. M. Prado, Invalidità del brevetto per mancata individuazione del problema tecnico, in Riv. Dir. Ind. 2010, IV, 316 ss..; v. anche nota 5: Cartella, L’implementazione della domanda di brevetto tra vecchie e nuove norme, ivi, 2010, 113 e ss; Franzosi, in Riv. dir. ind., 2001, I, 65, «Un’invenzione è descritta in maniera sufficiente anche se tutti i dettagli tecnici non sono espressi, se l’esperto è in grado di completare la descrizione con la propria preparazione tecnica (la conoscenza generale - common general knowledge - di cui dispone l’esperto dello specifico settore della tecnologia), e di riprodurre l’invenzione senza eccessivo sforzo»;

[6] Coerentemente con la funzione tipica dell’istituto brevettuale di promozione dello sviluppo scientifico e tecnico, la dottrina ritiene preferibile una visione sostanziale, considerando brevettabile il trovato laddove sia in grado di raggiungere il proprio scopo, al di là di meri formalismi;

[7] I. M. Prado, ibidem, “ciò che si richiede è che l’invenzione sia brevettabile, cioè che possegga i requisiti di validità: ma non cessa di possederli giusto perché non “dice” ovvero non “spiega” che li possiede”.

[8] Cass. 22-11-2010, n. 23592; Cass., 23414/2009; Cass., 8510/2008; Cass., 8735/1998; v. anche Trib. Bologna, 14664/2010, in www.giurisprudenzadelleimprese.it: in considerazione dei principi sottesi all’istituto brevettuale, in un’ottica di contemperamento della finalità del progresso scientifico e della libera fruizione da parte dei consociati con il diritto di proprietà industriale vantato dal titolare, legittimato al suo sfruttamento in via esclusiva, la descrizione svolge una funzione apprezzabile sia sotto un profilo prettamente tecnico-inventivo, sia, conseguentemente, divulgativo. Ergo, una carenza di descrizione nel titolo non può essere superata neppure quando il ctu ravvisi in concreto i requisiti sostanziali di una valida invenzione;

[9] v. in tal senso anche App., 1677/2005: nel caso di specie, la descrizione era caratterizzata “da una non sufficiente esplicazione in punto di illustrazione della novità anche intrinseca del trovato”. Detta carenza non rende neppure percepibile in concreto l’esistenza o meno della novità intrinseca del trovato”.

 

Contributo a cura del Dott. Riccardo Ianni.


Pesi e contrappesi nei rapporti tra startup e investitori

Pesi e contrappesi nei rapporti tra startup e investitori


Gli imprenditori, specie se di giovane età, tendono sempre più ad usare le startup come forme societarie privilegiate, per via delle agevolazioni economiche e fiscali riservate a queste imprese emergenti.

 

Un problema tipico di queste realtà è la ricerca continua (a volte esasperata) di iniezioni di liquidità, da parte di investitori terzi, necessarie per operare sul mercato, crescere e diventare sempre più autonoma finanziariamente; che questo investimenti promanino dai c.d. “business angels[1]” o da una base di “azionariato corale[2]” come nel caso del crowdfunding, quel che emerge con una certa frequenza è l’asimmetria informativa tra gli investitori, da un lato, e le start up, dall’altro, con ovvio danno per queste ultime.

 

Difatti, capita spesso che per ingenerare fiducia nei soggetti che dovranno andare a rimpolpare le finanze societarie, gli startupper tendano a non esprimere dubbi e perplessità circa i termini della trattativa in corso, sebbene nella realtà non abbiano il quadro di quest’ultima completamente chiaro. Questa situazione sconveniente per entrambi gli interlocutori e che tende a generare sfiducia e diffidenza tra le parti, spesso si verifica quando non ci sono molti investitori con cui negoziare per un determinato progetto e quindi aumenta il principio di necessità a fronte del principio di opportunità[3].

 

La realtà delle cose è che gli investitori fanno delle richieste che le startup possono (e devono) negoziare nella giusta misura, in base a poche e ragionate priorità di business, che devono presupporre una chiarissima consapevolezza di quello che si può chiedere e soprattutto di come va chiesto: pertanto, è cosa buona e giusta andare a “scavare” nelle clausole che non entusiasmano particolarmente lo startupper, sollevando obiezioni che dimostrino consapevolezza e conoscenza della materia, ma senza dimenticare le ragioni ed esigenze che animano e sono alla base delle attenzioni e degli interessi delle controparti, desiderose di scorgere il tornaconto economico, quantomeno nel medio-lungo periodo.

 

Abbiamo deciso di avviare un percorso di spiegazione delle clausole di M&A più frequenti ed importanti, a partire dalla prossima puntata.

 

[1] I Business Angels sono tipologie di investitori che investono nella fase seed, ossia iniziale, anche precedente alla effettiva costituzione della startup e tendono per lo più ad investire in imprese che lavorano in settori già da loro conosciuti. Un Business Angel opera indicativamente su dimensioni di intervento tra i 10.000€ ed i 500.000€ e avendo un’approfondita conoscenza del settore di mercato della neonata società è in grado svolgere la due diligence in modo veloce ed a costi ovviamente contenuti, favorendo di fatto la creazione dal basso di nuove startup.

[2] In questa dizione possono ricomprendersi, oltre al crowdfunding, l’azionariato popolare e i supporters’ trust.

[3] Il principio di opportunità-necessità esplicita una dinamica abbastanza intuitiva, cioè che il grado di negoziabilità di una trattativa decresce al decrescere del numero di interlocuzioni possibili con soggetti disposti ad investire nel progetto.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Convenzione tra giovani commercialisti e Harley&Dikkinson Consulting

Convenzione tra giovani commercialisti e Harley&Dikkinson Consulting


Studio Industria è orgogliosa di annunciare la convenzione tra l'Unione deigiovani dottori commercialisti italiani e Harley&Dikkinson Consulting, partner di Eni Gas e Luce, società leader nell’ambito della qualificazione e valorizzazione degli edifici, la cui missione è quella di investire sulla riqualificazione del territorio urbano come fonte di energia rinnovabile.

Si tratta di un partenariato che è stato fortemente sollecitato da Studio Industria, soprattutto grazie al supporto del Senior Partner Andrea Tatafiore e del Dott. Massimo Ianni, per favorire l'importanza che le frange più giovani delle professionalità italiane possono assumere nel Paese.

 

Matteo De Lise, presidente dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili, ha commentato l'opportunità dicendo: “Da mesi ripetiamo che il Superbonus è una grande opportunità per i nostri iscritti. Possiamo vantare le capacità e le competenze della nostra rete, composta da più di 10 mila professionisti su tutto il territorio nazionale. Si è però presentata la necessità di creare un network interdisciplinare e interprofessionale per contrastare una concorrenza agguerrita e per questo, nel pieno rispetto di quelli che sono gli scopi e gli obiettivi che animano la nostra associazione e che avvicinano tanti giovani colleghi da tutta Italia, abbiamo inteso firmare questo protocollo d’intesa con H&D”.


Whistleblowing: Intersezioni tra 231 e Privacy

Whistleblowing: Intersezioni tra 231 e Privacy


Il whistleblowing è uno strumento, di matrice anglosassone, volto a regolare (e agevolare) il processo di segnalazione di illeciti penali o di altre irregolarità di cui il whistleblower sia venuto a conoscenza nell’espletamento e/o in costanza del proprio lavoro[1]. Il suo scopo sociale risiede nella prevenzione ed individuazione delle violazioni che rechino un danno all’interesse pubblico oltre che, eventualmente, dell’inefficace attuazione dei presidi di controllo 231 di un ente[2], mirando a garantire una tutela efficace ed efficiente degli informatori dalle ritorsioni che gli stessi potrebbero subire a seguito di una denuncia ispirata a queste nobili finalità[3].

Con la recente Direttiva 1937/2019 sulla “Protezione delle persone che denunciano violazioni delle norme UE”, i soggetti segnalanti sono protetti da qualsiasi forma di ritorsione, diretta o indiretta, per motivi connessi alla segnalazione effettuata[4] e il principale escamotage per ottenere questo effetto consiste ovviamente nel garantire la riservatezza del soggetto denunciante, che va tuttavia distinta dall’anonimato: d’altra parte, non sarebbe possibile garantire adeguata tutela a colui che non si sia reso in alcun modo riconoscibile ai soggetti, tipo l’ANAC, deputati a preservarlo da ripercussioni. Nulla osta, comunque, che i modelli organizzativi interni alla singola persona giuridica possano prevedere canali per effettuare segnalazioni in anonimato; sebbene, già nel lontano 2009, il Garante Privacy ritenne necessario verificare la veridicità delle informazioni: infatti, nel caso in cui le stesse risultassero false, anche la garanzia dell’anonimato potrebbe risentirne, in una logica di contemperamento degli interessi confliggenti.

Con la Legge n. 179/2017 - intitolata “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato” - il nostro legislatore trova nell’articolo 6, comma 2-bis, del d.lgs. 231/2001 il punto di equilibrio tra la tutela della riservatezza del dipendente e la necessità, altrettanto importante, di assicurare l’effettività del sistema disciplinare previsto dal modello di gestione, organizzazione e controllo (MOGC). Difatti, le segnalazioni anonime potranno essere valutabili, “purché le stesse siano “circostanziate” e “fondate su elementi di fatto precisi e concordanti; allo stesso modo, la tutela è garantita ai segnalanti anche quando la segnalazione, seppur infondata, si basi su criteri di buona fede e ragionevolezza[5]”.

Alla luce di quanto detto, la regolamentazione del whistleblowing plasmata in un sistema di compliance 231 è intimamente legata alla normativa Privacy, che trova nel GDPR[6] la sua più recente declinazione. L’integrazione tra i due istituti presuppone che siano chiaramente definiti i ruoli dei vari soggetti dell’organigramma aziendale, dell’organigramma privacy e del funzionigramma 231, coinvolti nella procedura al fine di garantire il rispetto delle accortezze circa la sicurezza nella circolazione delle informazioni personali, sensibili e non, e il loro eventuale trasferimento, anche fuori dall’Unione, nonché il diritto di accesso agli atti da parte del soggetto segnalato.

Pertanto, un MOGC, per rispettare le precauzioni legate al whistleblowing, dovrà prevedere uno o più canali che consentano al segnalante (soggetto apicale o sottoposto dell’ente) di presentare segnalazioni circostanziate di condotte illecite e almeno un canale alternativo di segnalazione[7] idoneo ad assicurare, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante. Inoltre, oltre a tenere indenne il whistleblower da atti di ritorsione di natura discriminatoria, l’ente che vorrà essere ritenuto adempiente dovrà inserire nel sistema disciplinare sanzioni tanto verso colui o coloro che avranno condotte reattive nei confronti del segnalante e/o contravverranno all’obbligo di garantire la riservatezza circa l’identità di quest’ultimo, quanto verso il segnalante che effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che, una volta indagate, risultino prive di fondamento.

 

[1] L’individuazione dei soggetti cui si applica l'istituto del whistleblowing è rigorosamente fissata dal legislatore nell’art. 54 bis, comma 2, del D. Lgs. 165/2001: dipendenti con rapporto di lavoro di diritto privato; dipendenti con rapporto di lavoro assoggettato a regime pubblicistico di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165/2001, compreso il personale di polizia penitenziaria e quello della carriera dirigenziale penitenziaria, con la sola esclusione degli appartenenti alle magistrature, il cui organo di autogoverno direttamente riceve e gestisce le segnalazioni whistleblowing; lavoratori e collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore della amministrazione, solo nel caso in cui le segnalazioni da essi effettuate riguardino illeciti o irregolarità relativi al Ministero della giustizia, nei cui confronti la prestazione è resa; coloro che svolgono tirocini formativi o di orientamento presso le articolazioni ministeriali o presso gli uffici giudiziari in base a convenzioni stipulate con le scuole di specializzazione per le professioni legali, ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 398 del 17 novembre 1997, oppure in base alle convenzioni previste dall’art. 18 della legge n. 196 del 1997 e dall’art. 1, comma 32, della legge n. 92 del 2012.

[2] Che potrebbero diminuire le possibilità che l’ente stesso sia esentato da responsabilità amministrativa ex D. Lgs. 231/01.

[3] Al cospetto delle citate “nobili finalità”, si precisa che qualora dalla segnalazione possano evincersi interessi personali del segnalante questi è tenuto a renderne edotto il soggetto recettore dell’istanza.

[4] Si vedano gli artt. 19 e ss. della Direttiva 1937/2019.

[5] M. Metafune, Il diritto all’anonimato del whistleblower tra pubblico e privato, in Iusinitinere.it 27.03.2020.

[6] Regolamento UE 679/2016.

[7] Quale potrebbe rinvenirsi in un data entry ispirato alla tecnologia blockchain.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Pubblicata una nuova monografia sul diritto d'autore

Pubblicata una nuova monografia sul diritto d'autore


Siamo orgogliosi di presentare finalmente la monografia curata dal nostro Partner Andrea Tatafiore, dedicata alla proprietà industriale e intellettuale.

L'opera, edita CEDAM-WKI, ha visto il contributo dei Professionisti di Studio Industria Francesco Minazzi, Pietro Pulsoni, Piermarco Di Lallo e Francesco Pavia.

Abbiamo già in mente altro, occhi all'erta.


Le differenze funzionali tra OdV e Collegio Sindacale

Le differenze funzionali tra OdV e Collegio Sindacale


Ai fini di una concreta possibilità che l’ente sia esonerato da responsabilità per i reati eventualmente sorti al suo interno[1], la normativa prevede[2] che il Modello 231 debba “prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli”; il dato normativo viene messo in pratica attraverso la predisposizione di un sistema di flussi informativi[3] bidirezionali “da e verso” l’Organismo di Vigilanza,  per informarlo adeguatamente delle dinamiche societarie rilevanti in ambito di compliance.

Ciò premesso, è importante soffermarsi sullo specifico flusso tra Organismo di Vigilanza e Collegio Sindacale: il primo deve relazionare il secondo in merito al funzionamento del modello, alle eventuali necessità di un suo aggiornamento[4], nonché agli aspetti di maggior rilievo di cui sia venuto a conoscenza nel periodo di riferimento del report, la cui frequenza minima, sebbene di norma debba parametrarsi in base al peculiare profilo di rischio aziendale, sarebbe opportuno che avesse una cadenza quantomeno annuale. Il secondo deve invece aggiornare il primo, nelle medesime tempistiche, circa le attività di controllo e vigilanza attuate e delle conseguenti ricadute pratiche su tutti gli aspetti collegati alla regolamentazione 231.

 

 

 

Nonostante entrambi questi organi abbiano delle funzioni prettamente di controllo, è ormai acclarato che la differenza sostanziale tra i due debba ricondursi alla titolarità di una posizione di garanzia[5] in capo al Collegio Sindacale, che invece manca ai membri dell’Organismo di Vigilanza, per i quali non è configurabile l’obbligo giuridico di impedire il reato altrui, ma solo l’obbligo di sorvegliare sul corretto funzionamento del Modello di organizzazione e controllo ed “esercitare controlli su alcuni reati societari, presupposto della responsabilità dell’ente (tra i quali il falso in bilancio), sui quali svolge un’attività di vigilanza anche il collegio sindacale[6]” che invece, in forza del carattere globale e discrezionale (quanto alle modalità) della sua posizione di controllo, ha il potere/dovere di impedirne il compimento. L’obbligo di sorveglianza dell’Organismo di Vigilanza si risolve nella mera vigilanza priva di poteri giuridici impeditivi e che può al più estendersi in un potere/dovere di informazione e impulso nei confronti del soggetto/organo dotato di poteri di intervento impeditivi; questa caratteristica ha quale ulteriore corollario la naturale riconduzione della responsabilità dell’Organismo di Vigilanza nell’ambito di quella “contrattuale”, in quanto detti obblighi e doveri sembrano derivare direttamente dall’assunzione dell’incarico.

Da quanto detto, emerge una sorta di collaborazione informativa, sebbene di differente respiro e portata, tra Organismo di Vigilanza e Collegio Sindacale. Collaborazione positiva anche solo per una sorta di “segregazione istituzionalizzata” relativa alle funzioni di controllo interno, che si accomuna a tutte quelle “segregazioni funzionali” da sempre ritenute un indice di best practice nella efficace attuazione dei modelli autoregolamentativi. Tuttavia l’introduzione[7], per le società di capitali,  della possibilità che il Collegio Sindacale svolga le funzioni dell’Organismo di Vigilanza porta ad un vero e proprio ribaltamento di quanto sinora asserito, poiché dalla coincidenza dei due organi viene, da un lato, a configurarsi in capo al Collegio Sindacale/Organismo di Vigilanza l’obbligo giuridico di impedire il reato e, pertanto, l’Organismo di Vigilanza acquisisce così una rilevanza non più solo interna, ma anche esterna, divenendo titolare di quella posizione di garanzia che si è visto essere prerogativa del solo Collegio Sindacale; dall’altro poi, verrebbe meno quell’attività di sorveglianza reciproca che avrebbe portato i due organi ad “esaminare e sindacare talune attività o, soprattutto, omissioni dell’altro[8]”, in quanto svanisce il presupposto della non coincidenza di controllori e controllati.

 

[1] A causa del principio presuntivo di immedesimazione organica del soggetto autore del misfatto.

[2] Art. 6 D. Lgs. 231/01

[3] Sull’importanza dei flussi informativi si faccia riferimento a quanto riportato nel Modello CoSO-ERM, il più diffuso standard internazionale in tema di enterprise risk management e sistemi di controllo interno.

[4] Le ragioni alla base di una sollecitazione in merito all’aggiornamento del Modello di Organizzazione e Controllo possono essere endo ed eso societarie. Tra queste ultime si può annoverare, per l’attualità del richiamo, l’adeguamento aziendale alla normativa Covid-19.

[5] Sebbene circoscritta ex art. 2407, comma 2, c.c. al solo controllo sull’attività degli amministratori.

[6] M. Arena, I controlli reciproci tra collegio sindacale e Organismo di Vigilanza, in 4CLegal.com 09/07/2018.

[7] Con la finanziaria del 2012.

[8] Ibidem

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.


Impresa e Banche: un rapporto basato sempre più sulla prudenza che sulla fiducia

Impresa e Banche: un rapporto basato sempre più sulla prudenza che sulla fiducia


Tutti noi abbiamo ben presente la scena dell’imprenditore che si reca dalla propria banca di fiducia chiedendole un prestito e tentando, soprattutto nei momenti di difficoltà della propria azienda, di far leva sul rapporto più o meno storico tra i due; nonché sulla costante virtuosità e sull’onore che hanno sempre contraddistinto lo stesso soggetto, asserendo che, per l’appunto, si tratta solo di un momento di sofferenza che verrà superato con successo se solo la banca potesse andargli incontro. Ebbene, se in passato era plausibile attendersi un “lieto fine”, oggi la situazione è senza dubbio mutata, dal momento che la banca è stata investita nel corso degli anni di una mole sempre maggiore di limitazioni, controlli e vincoli più o meno stringenti, che lasciano ormai sempre meno margine di manovra alle banche per erogare il fido.

Il primo grande shock finanziario si è verificato nel 2008, con la crisi immobiliare scoppiata in USA, quando le banche avevano concesso prestiti indiscriminatamente, creando i primi crediti deteriorati – non performing loans - NPL. In quegli anni erano già stati approvati gli accordi di “Basilea 1 e 2”[1], che prevedevano dei requisiti patrimoniali più rigorosi, ma la portata catastrofica di tale evento mise a nudo le carenze del sistema bancario, in particolare l’insufficiente patrimonializzazione, e pose le basi per l’adozione del nuovo accordo Basilea 3. L’obiettivo delle Autorità internazionali era in particolare quello di rendere più solido ed efficiente il sistema bancario. Da un lato, impegnando le banche a valutare più attentamente il profilo di rischio del cliente[2], e, dall’altro, puntando su una maggior patrimonializzazione delle stesse, differenziando gli accantonamenti patrimoniali in funzione della rischiosità del prestito, in modo da evitare la concessione di prestiti chiaramente rischiosi e di trovarsi preparati di fronte ad eventuali futuri scenari di insolvenza, evitando crisi di liquidità. Logica conseguenza fu ovviamente quella di una contrazione del credito (credit crunch) ed un freno all’economia, sacrificio ritenuto indispensabile per salvare il sistema del credito. La concessione del prestito era adesso vincolata ad un’analisi piuttosto automatizzata dell’affidabilità creditizia dell’impresa, basata su parametri economici, finanziari e patrimoniali. Da qui deriva il concetto di rating bancario dell’azienda.

Questa valutazione si compone di quattro parametri:

  • la probabilità di insolvenza del debitore (probability of default);
  • l’esposizione al momento dell’insolvenza (exposure at default);
  • la perdita attesa nel caso di insolvenza Loss (given default);
  • la vita residua del debito nel caso di insolvenza (maturity).

Ovviamente, in base alle oscillazioni degli indici di rischio, la banca dovrà predisporre un maggiore o minore accantonamento a copertura del credito concesso; ne consegue che i costi per l’erogazione del fido saranno indubbiamente inferiori per le aziende con un rating bancario migliore, perché la banca deve predisporre meno accantonamenti a copertura. Occorre inoltre precisare che, in caso di deterioramento del rating, la banca può effettuare una richiesta di rientro dell’esposizione, la cui incidenza dipenderà da una valutazione della banca, magari tenendo anche conto del rapporto fiduciario con l’impresa.

Come se non bastasse, sono ora in corso i lavori per “Basilea 4”, per porre fine ad alcune prassi bancarie più “soft” e flessibili verso i clienti.

Gli istituti bancari saranno chiamati non solo a controlli più serrati ed a maggiori accantonamenti, ma dovranno fare una valutazione prognostica sulla possibile deteriorabilità del credito, già prima che arrivino i segnali preoccupanti[3], con un costante aggiornamento degli accantonamenti in base alle oscillazioni prestazionali dell’indice che misura il rischio del credito.

In particolare, le banche dovranno effettuare un’analisi di triplice natura:

  • quantitativa, basata sulla documentazione contabile dell’azienda;
  • qualitativa, che prevede un esame frontale dell’azienda (tipo di attività, progettualità, mercato di riferimento, governance, compliance ecc.);
  • andamentale, di tipo interno (rapporto col cliente, movimentazione del conto, eventuali sconfinamenti ecc.) ed esterno (eventi e comportamenti segnalati da altri soggetti creditori dell’impresa).

 

In conclusione, le aziende sono oggi chiamate a degli sforzi (e costi) sempre maggiori, anche in considerazione di altri fattori che rendono competitiva l’impresa[4]. La tendenza è quella di un concetto di impresa sempre più clean, virtuosa, compliant ed affidabile, che rende necessario ripensare la governance e la strutturazione per munirsi di un’organizzazione idonea a facilitare questi sforzi e l’accesso al credito.

 

[1] “Gli Accordi di Basilea sono linee guida in materia di requisiti patrimoniali delle banche, redatte dal Comitato di Basilea, costituito dagli enti regolatori del G10 più il Lussemburgo allo scopo di perseguire la stabilità monetaria e finanziaria”.

[2] Generalmente un prestito concesso ad un’impresa è ritenuto dalla banca più rischioso rispetto, ad esempio, a quello erogato nei confronti di una famiglia, con la conseguenza di controlli più massicci alla base di tale concessione.

[3] Il principio contabile IFRS9 prevede infatti che le banche debbano prevedere accantonamenti anche per i crediti in bonis, stimare le perdite attese e metterle a bilancio.

[4] Si pensi al rating di legalità (v. rubrica "Il rating di legalità")

 

Contributo a cura del Dott. Riccardo Ianni.


Gli aiuti in regime de minimis

Gli aiuti in regime de minimis


Le imprese che sono interessate agli incentivi e ai finanziamenti pubblici si imbattono frequentemente nelle c.d. “Dichiarazioni de minimis”: si tratta di dichiarazioni da allegare all’istruttoria di accesso all’incentivo riguardanti il rispetto di certe soglie di spesa. Cosa significa in concreto?

Divieto di aiuti di Stato

Il presupposto di questo regime è una regola generale dell’Unione Europea, che vieta agli Stati di sovvenzionare in qualsiasi modo le imprese per non falsare il mercato e la concorrenza: si chiama “divieto di aiuti di Stato”. Come ogni regola, anche questa presenta alcune eccezioni.

Il “regime de minimis” è una di queste eccezioni e serve a stabilire se e quando le Amministrazioni Pubbliche possano fornire alle imprese agevolazioni economiche.

 

In pratica, le Pubbliche Amministrazioni possono concedere aiuti economici alle imprese entro determinati importi massimi, parametrati in percentuale agli investimenti e solo se autorizzati dalla Commissione europea. In generale, è previsto che ogni agevolazione pubblica deve essere preventivamente notificata (cioè comunicata in modo formale secondo un certo procedimento) alla Commissione Europa; gli aiuti di ridotte dimensioni, chiamati per l’appunto aiuti “de minimis”, si presume che non abbiano un impatto rilevante sulla concorrenza e, quindi, non devono essere pre-autorizzati.

Possono, pertanto, essere erogati aiuti alle imprese alle condizioni previste dal regolamento UE n. 1407/2013, in regime de minimis, senza obbligo di notifica.

Importi da rispettare nel regime de minimis

 

Le soglie al di sotto delle quali un aiuto statale è ammesso variano in base ad alcune caratteristiche.

In via ordinaria, una impresa non può ricevere, nell’arco di tre anni, concessioni qualificabili come “aiuti” per più di 200.000 euro. Questo massimale diventa di 500.000 euro nel caso in cui l’impresa aiutata fornisca i c.d. Servizi di interesse economico generale (SIEG), perché in questa ipotesi sono agevolazioni a titolo di compensazione per un servizio ritenuto utile alla collettività.

Nel settore del trasporto di merci su strada per conto terzi, invece, il massimale, nell’arco dei tre anni, non può superare i 100.000 euro ad impresa beneficiaria e comunque non può finanziare l’acquisto di veicoli.

Di conseguenza, per stabilire se un’impresa ha diritto ad un incentivo in regime de minimis e per calcolare l’importo massimo che può essere concesso con ogni singola misura, si devono sommare tutti gli aiuti ottenuti da quella impresa (bandi, finanziamento, crediti di imposta, ecc.), nell’arco di tre esercizi finanziari (l’esercizio finanziario in cui l’aiuto è concesso e i due precedenti).

 

Si spiega così la presenza delle “Dichiarazioni de minimis” allegate alle domande di agevolazione. Infatti, l’impresa che richiede un aiuto “de minimis” è tenuta a comunicare quali altri aiuti dello stesso tipo ha ricevuto, in modo che l’amministrazione concedente possa controllare che non abbia superato il massimale ammissibile. Nel caso di superamento del limite, l’aiuto non potrà essere attribuito.

Ambiti esclusi

 

A prescindere dagli importi, questa tipologia di aiuti non può essere usata nei settori della produzione agricola, della pesca, dell’acquacoltura e dell’industria carboniera.

La due diligence

Tutti i sistemi di incentivazione, in regime de minimis o meno, sono sottoposti a controllo da parte dello Stato, per questo è necessario prevedere i sistemi di governance per l’autoregolazione aziendale (Modello 231, rating di legalità, etc), destinati a rassicurare l’impresa dal rischio di call back degli aiuti. Basti pensare a tutta la recente normativa sui crediti di imposta, di cui è stata sottovalutata una previsione normativa: da qualche tempo, la legge precisa sempre che il credito è concesso a condizione che siano rispettate le norme relative alla sicurezza su lavoro, ai rapporti di lavoro, alle retribuzioni, alla normativa 231, ai contributi previdenziali, etc. La consulenza per la due diligence, infatti, consente di verificare preventivamente la solidità dell’azienda di fronte ai controlli.

 

Contributo a cura del Dott. Piermarco Di Lallo.